Alimurgia: differenze tra le versioni
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L'alimurgia è la scienza che riconosce l'utilità di cibarsi di determinate piante selvatiche che sono edibili, soprattutto in tempi di carestie o semplicemente per scopi salutistici. Tali piante sono dette piante alimurgiche se appunto commestibili, e perciò prive di sostanze velenose o comunque dannose per l'organismo.
Il termine alimurgia fu coniato del medico e naturalista fiorentino Giovanni Targioni-Tozzetti (1712-1783) nel trattato De alimenti urgentia (1767), opera che trattava della possibilità di far fronte alle carestie, ricorrendo all'uso dei prodotti spontanei della terra e principalmente delle verdure.[1]
Le parti commestibili (o edùli) di una pianta possono essere diverse: foglie, fusto, germogli, fiori, radici, tuberi, bulbi e bacche.
Alcune piante alimurgiche
- amaranto comune Amaranthus retroflexus
 - bardana maggiore Arctium lappa
 - borsa del pastore capsella bursa-pastoris
 - borragine borago officinalis
 - Farinello buon-enrico Chenopodium bonus-henricus
 - carletti Silene vulgaris
 - dente di leone Taraxacum officinale
 - erba di san pietro o erba buona Tanacetum balsamita
 - primula odorata primula veris
 - viola mammola viola odorata
 - cicoria comune Cichorium intybus
 - ortica urtica dioica
 - parietaria Parietaria officinalis
 - piantaggine plantago spp.
 - portulaca portulaca oleracea
 - farinello o farinaccio Chenopodium album
 
Note
Bibliografia
- Indrio F., 1981. Piante selvatiche commestibili. Ed. Ottaviano, Milano.
 - Kuster H., 1989. Il libro delle erbe aromatiche. Garzanti, Milano.
 - Lanzani Abbà A., 1960. Il prato nel piatto. Mondadori, Verona.
 
